lunedì 17 ottobre 2022

Fuori dai binari


Binari, strade; qual è la differenza?

I binari sono più sicuri, ma ti intrappolano in un percorso da cui non puoi uscire; non in piena corsa; non senza problemi; non senza un congruo investimento in energia ed in pianificazione.

La strada ti lascia più libero; certo, richiede attenzione, ma col tempo ci si fa l'occhio, ci si fa l'abitudine. Però quando c'è un ostacolo, a meno di non essere su un bolide a tutta velocità, hai l'opportunità di fare qualche manovra per evitare (o almeno diminuire) i danni.

Ora sono sui binari; e c'è un ostacolo. Uno di quelli grandi, abbastanza da far deragliare il convoglio, con un gran rischio di farsi e fare male. Qualcosa ho anche provato a farla per rallentare il treno e cercare di mantenere la calme, ma il panico non mi ha lasciato fino alla fine, ed ora è troppo tardi per qualsiasi precauzione.

Dopotutto la paura c'è sempre stata; la sensazione di essere lanciato a tutta velocità su un binario morto è lì da tempo. Sentirsi prigioniero ed incapace di qualsiasi scelta non è nulla di nuovo. Ora è solo l'apoteosi di ciò che è in atto da lungo tempo; il frutto di non-scelte a causa di una paura che mi porto dietro da troppo tempo.

Paura di essere chi sono e di volere ciò che voglio, che mi ha portato alla soglia di decisioni impensabili, quando bastava dire di no una delle molte volte prima. Ma come al solito devo ridurmi all'ultimo, agli sgoccioli, con psicologo e psichiatra che non sanno più che dirmi per farmi imparare a farmi amare me stesso ed a farmi rispettare, a non essere un pendolo alla continua mercé di forze esterne a cui non ho il coraggio di reagire.

No. Devo uscire dai binari. E non importa quanto difficile e doloroso sarà.

martedì 12 luglio 2022

Onde di nostalgia

Fermo; come sempre, in fondo.

Fermo, in un certo sistema di riferimento; in fondo la Terra gira, su se stessa; e gira intorno al Sole; e mi trascina con se in un movimento di cui non ho alcuna responsabilità, né ho alcuna influenza.

Mi muovo nel mio immediato spazio fisico; casa, ufficio; casa, ufficio; casa, ufficio.

Tutto entro quattro grandi muri (più o meno) immaginari; muri di paura, di panico, di confusione, dove non faccio altro che continuare a sbattere, in un grande flipper di emozioni e di strette al cuore.

Pianti nascosti sotto la mascherina e dietro gli occhiali, che nemmeno avessi occhiali da sole, almeno riuscirei a nasconderli veramente; ma il più delle volte sono pianti a metà, dove non ho neppure il coraggio di piangere veramente, per paura di sembrare debole. Come se non lo fossi veramente.

The Midnight in cuffia; musica atta a stimolare vaghi ricordi; ricordi che iniziano a svanire, di un passato nonostante tutto spensierato, privo dei fitti cumulonembi che coprono il presente.

Così la nostalgia va e viene, a ondate, tra visioni, sogni, e profumi di un passato che inizia inevitabilmente ad essere riscritto nella mia memoria nei termini, ahimè, del presente.

Che poi non è che non abbia voglia di tornare; ma vorrei farlo alle mie condizioni e nei miei tempi. Forzarmi fa solo peggio, e mi allontana sempre di più; aumenta solo la sensazione di essere intrappolato in un tempo, un luogo, una situazione che non riesco a controllare.

Inchiodato, dalla paura.

Paura di essere nuovamente la goccia che fa traboccare il vaso.

giovedì 30 giugno 2022

Buon vento.


 

Motonave Stelio Montomoli (ex Aethalia II), 16 nodi.
E' una splendida mattina di giugno, e la pace per gli altri regna sovrana. Non regna per me, ma questa è una costante ormai da 41 anni, e da che se n'è andato il sorriso più bello del mondo dalla mia vita, la parola "pace" è ancora più lontana e vivo praticamente in un perenne stato di crisi.
Ho parcheggiato l'Enterprise nella pancia della nave che la BalenaBlu, sua degnissima antesignana, ha frequentato a lungo,  in un periodo in cui era freddo, le strade erano vuote, era pericoloso andare in giro, ero ferito e i miei sogni erano ancora immaturi. 
Al di fuori dei finestrini di questa stupenda ammiraglia della Toremar, che dal 1991 al 2016 si chiamava Aethalia, c'è una visione consueta, fatta di isole, isolotti, di mare, di vento, e del canale di Piombino.
Il "caffè disgustoso della Toremar" è sempre lì, col suo retrogusto amaro, a ricordarci che in periodi "normali" i nostri parametri sono meno permissivi rispetto a quando c'è crisi.
Sì, perché il "caffè disgustoso della Toremar" nei mesi di marzo e aprile 2020, con l'Italia chiusa, il cuore che batteva forte e la macchina lasciata a Piombino, con tutti i bar chiusi, era un'oasi di pace.
Salii proprio su Aethalia e vidi il bar aperto, nel mese di marzo 2020, e quel gesto normale di bere quel caffè disgustoso che ho sempre evitato sembrava un'oasi per un camminatore assetato nel deserto.
Il caffè allo stesso tempo più disgustoso e più buono che avessi mai bevuto era lì, nella tazzina dei primi anni '80 con disegnata in blu la silhouette di altre due grandi navi tra loro gemelle, Marmorica e Oglasa, dopo i controlli alla scala della nave, che mi forniva, per l'ora di navigazione, una parvenza di normalità.
Ma questa è un'altra storia.
Comunque, oggi è crisi, nel senso che non è facile fare tabula rasa di qualcosa, ma soprattutto di qualcuno che credevi essere "la persona giusta". Probabilmente vale lo stesso anche per lei, e non dovrebbe essere di mia competenza.
Ma lascio andare, perché ho la forza di farlo, forte degli insegnamenti derivanti dalla fine del mio matrimonio, e soprattutto della fine della storia con Giulia.
Il silenzio di chi aveva preso il mio cuore come mai nessuno prima in questo stupendo (adesso per gli altri) 2022 regna sovrano, dopo l'epilogo dettato delle sue paure, dall'impossibilità di incrinare la sua vita programmata per qualcosa o qualcuno per cui, probabilmente, sarebbe valsa la pena di lottare. Sì, per una volta sono arrogante e penso che valga la pena di lottare per me, perché eravamo "quelli giusti".
Qualcuno, forse, in futuro apprezzerà, oppure qualcuno che apprezza già oggi si ricrederà nelle sue non decisioni. Forse.
Mi ripeto che questa è la vita e che forse non ho il privilegio di trovare pace, come ho detto sopra.
Salire su questa nave è l'estremo tentativo di cercare un'ora di fiato non troncato, di silenzio ricercato da anni. Ma non ce la fa nemmeno lei.
Aethalia (per me ha ancora questo nome, memore di una battaglia combattuta dai Ferajesi che non avevano un cazzo da fare nell'anno 2016) continua il suo incedere maestoso (e lento, più lento di un tempo per il caro carburante), mentre nelle mie orecchie risuona "The Downeaster Alexa"  di Billy Joel.
La mia psicologa mi dice di togliere la musica dalle orecchie ed ascoltare il sottofondo, ma non ce la faccio ancora. Ci provo, ma ancora non ci riesco. Forse, camminando nel tappeto dei giorni che ho davanti, ce la farò senza sentirmi obbligato a girarmi.
Stelio Montomoli, ex Aethalia. Suona male.
Alle navi non si dovrebbe mai cambiare nome, e non solo per una storia di scaramanzia. Le navi hanno un’anima, ti guardano e ti parlano. Hanno un loro profumo che non è solo quello del carburante bruciato ma anche del legno e degli ottoni lucidati.
E' vero, hanno un'anima pure loro. Chissà quante persone protagoniste degli amori dai due lati del Canale di Piombino hai portato, negli anni.
Qualche anno fa ci vedevamo più spesso, io e la mia nave preferita.
Proprio nel mio 2020, quello fatto di una separazione brutta davvero, di chiusure imposte dal COVID (di cui al disgustoso caffè precedentemente menzionato), ero il protagonista di un grande amore (per me, per l'altra parte no) dall'altro lato del canale di Piombino, iniziato sulle note dei Clash e finito, in quell'8 novembre, in un doloroso viaggio di ritorno sulle note di "Sandy" di Fabio Liberatori (colonna sonora di un momento ben preciso del film "Acqua e Sapone", che mi fece pensare che il nostro amore fosse davvero impossibile come quello di Sandy e Rolando), mentre l'allora nuovissima Enterprise, che aveva una settimana di vita, affrontava timidamente le Curve di Montieri, in un pomeriggio in cui si correva tutti a casa per il coprifuoco imminente.
Sulla carta non finì lì, ma dentro di noi lo sapevamo che eravamo al capolinea già da quella mattina a Pomonte. 
Da lì, mesi di silenzio, di controllo perduto, di notti insonni, di pianti repressi, di psicologhe che cercavano in tutti i modi di farmi rientrare sui binari del "normale modo di pensare", e io che invece mi svegliavo la mattina con l'ansia, dopo il poco sonno, e pensavo a Giulia, che era lì, così forte da farmi finire in ospedale per un attacco di panico.
E' il mio errore: ci credo, sempre, più del dovuto. E' anche questo il caso.
Dovrei lasciare fare  al tempo, e non mi riesce.
E' passato un anno e mezzo. Io e Giulia siamo Colleghi e abbiamo un ottimo rapporto complice, tale da far incazzare tutte le donne che mi hanno ronzato intorno in questo periodo. Inclusa, anche se non lo dice, colei che ha reso magica la prima metà del mio 2022.
Giulia ha finalmente letto la lettera che le consegnai nel gennaio 2021, e che il Collega di studio fece finire in un cestino, dando spazio a una storia nuova, e poco "sentita".
Questa nave mi porta da lei, e mi piace il titolo diverso che abbiamo messo alle nostre vite dopo che ad aprile di quest'anno abbiamo fatto, finalmente, pace. Lei è sempre la stessa, con tutto il carico annesso alla sua persona di cose che mi fanno incazzare.
E ora siamo Colleghi, appunto. E non penso a noi come niente altro.
In ogni caso, normalmente tutte le volte che prendo questa nave, mi passa l'inquietudine.
Ma stavolta, come ho scritto sopra, no.
Da poco ho chiuso la storia con la persona che credevo quella giusta per me, poco prima. Ho fatto quello che dovevo fare perché tanto i miei desideri pià profondi non sarebbero mai stati soddisfatti. Lo credevo davvero che fosse quella giusta, ma le sue responsabilità e i suoi obblighi l'hanno condannata a non trovare pace, mai. Un po' come me.
Una condanna simile a quella che da solo io mi infliggo.
E appunto, dopo l'epilogo della nostra bella storia segreta, che avevo creduto fosse il porto sicuro, la pace finalmente trovata in 41 anni di guerre, in primis contro me stesso, rimane un sapore amaro in bocca, come quello lasciato dal caffè della Toremar.
Ci avevo visto il presente e il futuro. Ci avevo visto tante cose belle da fare insieme. Ci avevo visto la felicità. Anzi, l'avevo proprio vissuta.
Aethalia, nel suo pragmatismo spicciolo tipico degli elbani,  mi ribadisce che ce l'avevo visto solo io, aggiungendoci un bel "de", mentre passa accanto all'Isola dei Topi nel suo abitudinario viaggio che si sciroppa 5 volte al giorno. 
Come vorrei tornare ad essere un passeggero distratto di questa nave, senza i pensieri che mi fanno solo male, senza la smorfia che in questi giorni assume brutalmente il mio viso senza che io me ne accorga. E' vero che le navi ti parlano, e ti raccontano tutto quello che hanno vissuto, più delle macchine.
E se ci salissi tu, probabilmente ti farebbe mettere a sedere e ti racconterebbe di un Andrea bambino che ci sale con i genitori, all'epoca più giovani di lui adesso, con i capelli a forma di scodella in testa, che ogni anno cresceva sempre di più.
Ti racconterebbe il primo passaggio con la Punto Cabrio, e le ansie di una persona che si è sempre sentita inadeguata e che per contrastare questa caratteristica ostenta la sicurezza più falsa della Terra.
Ti racconterebbe il primo amore elbano nel 2006, che tanto amore non era, ma era l'incarnazione dell'aforisma "la meta è il viaggio". Ti racconterebbe dell'intensissimo 2020, delle estati da bagnino, del sorriso che ci siamo scambiati quando nel 2022 ci sono salito, pensando proprio a te.
Ti racconterebbe, probabilmente, insieme al Duetto, di quanto questa nave sia partita carica di speranze e arrivata, purtroppo, vuota a destinazione.
Sì, perché alle navi non si augura mai "Buon viaggio", ma "Buon vento". Le si lasciano andare con l'augurio nato quando le navi non andavano a gasolio, ma a vela, ed era l'augurio più bello.
Il vento ti sospinge, se è un vento buono, ma se è cattivo alza il mare e crea delle mareggiate paurose.
E allora sono qui, su questa nave, amore mio, ad augurarti buon vento, nonostante tu abbia scelto di non scegliere il vento buono, ma la bonaccia, che non spinge da nessuna parte.
Ti meriti che il vento buono ti porti nella destinazione che vuoi, con l'equipaggio che vuoi.
Molto spesso il vento inverte la rotta e ti porta dove non credevi.
Ti meriti quello che non hai avuto sinora, ovvero l'amore vero che ho la presunzione di averti insegnato. Spero che il vento buono te lo porti.
L'Enterprise viene vomitata a Portoferraio e sembra salutare Aethalia, con la complicità di chi, probabilmente, conosce il bambino scemo che è ora alla guida, ma lo prende così com'è.
C'è vento, là fuori. Guardo la nave che da cui sono sceso.
E ti auguro buon vento, amore mio. Sempre e per sempre. 


giovedì 9 giugno 2022

Cedere il volante. Comunque vada.


Strada provinciale di Sottobosco, 100km/h. E' un sabato, a suo modo vicino e lontano,  di tarda primavera del 2022. Il bialbero 2000 del mio Duetto color Rosso Vittoria Micalizzato (come da n.3 della Rivista L'Alfista) romba, rotondo e corposo, sui 2500 giri nella quinta marcia appena inserita dalla mia mano esperta, e profonda conoscitrice di tutte le dinamiche e delle caratteristiche che quest'essere animato nato nel 1990, al canto del cigno della Serie Alfa Spider, dalla linea pulita e filante e fortemente d'epoca, che si contrappone alle dotazioni ricchissime di cui è infarcita.
La vicina e verdeggiante collina su cui poggia il castello dei Guicciardini restituisce la sinfonia dei quattro cilindri di Arese alle nostre orecchie.
Le mie mani sono sul volante di legno alle 9:15, come da protocollo rigido delle scuole piloti che all'inizio dei miei ansiosissimi vent'anni avevo frequentato assiduamente.
Non lo dico a nessuno, ma ho imparato tardi a scodare con le trazioni posteriori, all'epoca ancorato a rigidi protocolli di "traiettorie imposte".
Gli A-ha cantano "Stay on These Roads", ma quello che si sente è soltanto il battere sincopato delle percussioni di un pezzo fantastico, a causa del vento e del rombo. Conosco il testo di quella canzone a memoria, è una delle mie preferite.
Stay on these roads
We shall meet, I know
Stay on my love
We shall meet, I know

Il Duetto procede spedito, e nel suo essere "oggetto da divertimento", non mi ha raccontato tante storie.
Abbiamo sostanzialmente avuto un "rapporto professionale", a differenza di quello che ho nel quotidiano con l'Enterprise e che avevo un tempo con la BalenaBlu.
Nella nostra complicità non ci siamo mai detti niente di speciale in tutti questi anni.
Potrebbe parlare a tanti di effimeri momenti in gara, di traversi nelle prove speciali recenti quando non si poteva, di regole infrante stradali.
Dei suoi 23 anni di vita prima di incontrarmi non so nulla. Dei nove passati insieme conosco ogni giorno. Ha resistito a fidanzate, mogli, separazioni, divorzi. Ha resistito alla mia ansia. Ha resistito alla ruggine, alle salate strade olandesi. Ha resistito ad uno sbudellamento totale.
Il nostro è però sempre stato un rapporto di "do ut des", poco approfondito se non in certi momenti e in certe curve, un rapporto perfetto "sulla carta".
E' lo stesso rapporto che ho con Giulia, la mia Collega di studio. Identico.
Nessuno è mai stato realmente degno sinora di sedersi a destra, a causa del mio concetto filosoficamente ineccepibile di "Oggetti personalissimi". Un oggetto personalissimo è quello che è solo mio e nessuno deve capire , nessun altro che non sia io è legittimato a farlo.
Certo, qualcosa abbiamo fatto insieme, ma il carattere delle nostre esperienze comuni era prettamente automobilistico e agonistico, e non presuppone qualcosa di personale, di sentimentale. Ci siamo schierati ovunque, brillando del colore Rosso Vittoria, ma non abbiamo condiviso storie ed emozioni che non avessero il sapore di benzina.
Tra di esse, la 96 ore di Klagenfurt nel 2014, dove siamo stati in testa all'enorme raggruppamento dall'inizio sin quasi alla fine. L'equipaggio storico ora dissolto Bozzi-Parmeggiani. Le proteste della mia ex moglie perché "il macinino non frena". Il ghigno eccessivamente compiacente di Giulia che, poveretta, non ne capiva niente. Il raduno all'Elba nell'ottobre 2021. I Ritrovi a Vinci, il Trofeo San Casciano.
La seconda marcia che entra male, come in tutti i cambi Alfa Romeo della fine degli anni '80.
La sua volubilità a seconda delle temperature.
Il Test Track, col salto del Monte. Il Duetto vola. Tutte storie fatte di benzina, olio, pasticche dei freni, odori di meccanica dei tempi andati, ed emozioni non così indelebili. Niente di sentimentalmente profondo.
Quel giorno di primavera, invece,  ho consegnato al Duetto la sua prima favola bella a carattere non automobilistico da raccontare.
Alla mia destra, infatti, è seduta la persona con il sorriso più bello del Mondo, l'unica degna di stare lì in tutti questi anni. 
Mi guarda, dietro a degli supendi occhialoni squadrati, che fanno molto look anni '70 e avvolta in una sorta di bandana pregiata, perfettamente intonata alla circostanza. Lei è nata quasi 4 anni dopo la mia amata vettura animata, e la vedo osservare i movimenti della mia mano sul cambio e sull'impegnativo volante della macchina d'epoca, come a voler imparare qualcosa da questa mia passione.
Mi dice "Vai piano, godiamoci il panorama", ed in effetti è vero, perché la strada tra San Gimignano e Montaione è davvero una delle più belle in assoluto. Da povero pilota, accecato dall'esaltazione della guida, non mi ero mai soffermato né avevo mai rallentato per ammirare la bellezza intorno a me. E per un attimo seguo il suo consiglio e rallento, con la sua mano sinistra intrecciata alla mia destra.
Non siamo amici. Non stiamo insieme. Non sappiamo cosa siamo. Per tutto il resto del Mondo, ci conosciamo appena, o non ci conosciamo proprio.
Ognuno ha la sua vita, una volta scesi di macchina o usciti dalla porta di casa mia. Ma quello che siamo, qualunque cosa sia, mi piace, da morire. C'è un legame segreto profondo, così profondo che a tratti tronca il fiato, in particolar modo quando mi giro e i nostri sguardi e sorrisi si incrociano. E' l'amore della nostra vita, forse.
Non dovrei pensarlo.
Non dovremmo farlo, secondo il pensare comune.
Nemmeno il Duetto dovrebbe superare il limite di velocità così agevolmente come fa tra le mie mani di pilota esperto.
Non dovremmo fare tante cose secondo le comuni convenzioni, ma le facciamo.
E insomma, dopo un pomeriggio a fare "marito e moglie" fuori dalle rotte comuni dei Colligiani e Poggibonsesi si rientra.
La mia brava psicologa, a cui non piacerei nemmeno da lontano per il mio incarnare lo stereotipo della persona affermata, con la macchina grande, con l'eccessiva ricerca di conferme mascherata da persona solida, forte, che però prima o poi crolla, direbbe che avrei dovuto cedere il volante e smettere di sobbarcarmi le esigenze altrui. E' il mio difetto più grave, la causa di fondo di tutti i mali.
Devo imparare a cedere il volante, in effetti.
L'ho già fatto una volta. Forse due. Ma ero stanco, avevo fatto quasi 1000km in un giorno, e la macchina era la Mito Rossa, autrice di tante belle Missioni Eroiche. Faticavo a contenere l'esuberanza del motore turbo a causa del cambio, meraviglioso, che aveva la sesta marcia di potenza e non di riposo. Roba per pochi.
Era una cessione indispensabile e bofonchiante, dovuta ad esigenze fisiche.
E allora la guardo, incrocio il suo sguardo e il suo sorriso meraviglioso e, scalando in quarta marcia, rallentando, mentre Mike Francis porta in fondo quella lungagnata di canzone che dura 7 minuti, che è "Let Me In".
Sono pronto: "Amore,vuoi guidare te?".
Dopo quasi 41 anni sono riuscito a cedere il volante, e ad allontanare le mie ansie di controllo.
Si siede, le insegno a mettere la seconda marcia come si deve, in quel cambio duro e anziano.
Si vede una prospettiva diversa dal sedile di destra, che non avevo mai provato. Il sedile di destra nella MIA macchina è accogliente, rilassante, comodo.
Il Duetto sembra contento di avere una storia da raccontare, in 9 anni di vita accanto a me.
Il sorriso di lei, di una felicità autentica come poche, è la mia più grande soddisfazione degli ultimi anni.
Quel giorno ho imparato a stare seduto in una posizione diversa, a vedere il Mondo da trasportato e non da trasportatore.
Mi sentivo invincibile, perché eravamo finalmente accanto, come due persone che non pensano ad altro.
Credevo di avercela fatta, di aver portato la vittoria dalla mia parte, di essere pronto ad affrontare il suo cambiamento a testa alta.
Pochi giorni dopo, sarei diventato il suo "Pilota preferito", roba che nemmeno Senna e Prost ai tempi.
E invece no. Dopo i "Passi avanti" ci sono quelli indietro.
SS223, 120km/h. Torno dal Tribunale di Grosseto. Piove, in un afoso giorno di giugno dopo il mio quarantunesimo compleanno. Il Duetto è stato soppiantato dall'Enterprise. Il mio inguaribile ottimismo è stato soppiantato dall'ansia. Gli A-ha soppiantati da un pezzo lounge di Stephane deschezeaux, che mi riempie di tonfi le orecchie.
Ci siamo allontanati ancora, il silenzio regna, e non capisco il motivo.
Con la prepotenza che le contraddistingue, le domande solite invadono la mia testa insicura, dolorante, fatta di poco sonno, di notti in cui non chiudo occhio e mi sento sempre peggio.
Non vengo più messo al posto che merito, penso.
Accelero.
L'Enterprise sfiora i 150km/h in pochi secondi, mentre la Siena-Grosseto piega nel suo consueto modo infido verso sinistra, ma a lei non importa niente ed entra nel curvone con la naturalezza che l'ha sempre contraddistinta.
Vengo travolto dai dubbi, dal fatto che forse i miei desideri, mai espressamente manifestati in questi mesi, non saranno mai soddisfatti.
Sto perdendo tempo? Alle volte la risposta è sì, Altre volte la risposta è no. Non vivo aspettando a gloria la telefonata in cui mi viene comunicato "L'ho lasciato", anche perché allo stato attuale non avverrà mai.
Vivo, semplicemente, i momenti.
E forse ho torto, forse ho ragione, ma questa è la nostra favola, nata d'inverno e arrivata (a tratti traballando) alle soglie della difficilissima estate.
I miei desideri non contano, a questo punto. Ma ho di nuovo voglia di rivivere quel giorno col suo carico di emozioni che oggi pare così lontano.
Ed eccomi qua, a stare di nuovo male, forse immotivatamente, a chiedermi e a pietire stupide conferme non dovute, a percorrere le strade della mia vita di nuovo a velocità eccessivamente alta e con un tasso di attenzione pericolosamente basso.
Rampa del garage, casa.
Apro il bandone e il Duetto mi guarda, mentre con la telecamera posteriore dell'Enterprise inquadro il suo muso rosso Vittoria, dall'espressione compiaciuta.
Scendo, e il suo cenno di saluto immaginario sembra ringraziarmi per quella storia vicina e lontana che gli ho fatto vivere. E' così indelebile dentro di me, così a colori, al contrario del grigio dell'assenza e del silenzio, ovviamente imposto.
Non rinnego niente: la cessione del volante è servita a qualcosa di importante. Ovvero, trovare un'altra prospettiva, e capire che qualcuno può darci la serenità, imparando a stare prima soli e poi darsi tutto. Ho ceduto il volante a chi non ne aveva sulla carta titolo, ma nel cuore era lì, in prima fila a meritarselo.
Vorrei darglielo quel titolo e farla guidare tutti i giorni. Ma se dovessi immaginare un futuro, sarebbe sul Duetto. E con il sedile di destra occupato da un soggetto ben preciso.
Non è detto che questa battaglia non la vinca, assolutamente, ma ad oggi sembra una possibilità remota nel tempo.
Ma oggi sono contento, perché ho imparato una lezione nuova, comunque vada.
E non posso che esserne grato.

mercoledì 4 maggio 2022

Com'è giusto che sia. O forse no.

 



Guardo fuori dalle finestre della Stazione; il cielo è grigio, da che abbiamo parlato, con toni tranquilli,  seduti nella mia macchina, quel giorno, stranamente, con la vernice sporca come poche volte è stata per le recenti piogge. Ho tenuto botta, ed ho parlato per precisare un piccolo aspetto su come pensavo fossero andate le cose, e su come mai la persona che mi ha dato le emozioni più forti di tutta la mia vita, e che credo di aver amato più di qualsiasi altra al mondo, stava rinunciando a questo amore, a testimonianza del fatto che non conta il "quanto" ma il "come". Tuttavia, alle volte è inutile insistere quando ormai la battaglia è persa e quando sai che niente cambierà, anche se una storia ti dà tanti momenti belli. Infatti è stato un bel viaggio, senza dubbio.
Non ho mai avuto così tanto autocontrollo nella vita, apprezzando la mia metamorfosi, come se fossi stato un osservatore esterno di come mi sono comportato in questi mesi. E' una magra consolazione, in questo caso, ma è indice di un soddisfacente lavoro della mia psicologa.
Mi sono soltanto soffermato, in un attimo che sembrava infinito, a guardare i contorni rotondi del tuo viso angelico avvolto dai tuoi bellissimi capelli biondi, un po' come a fotografarne mentalmente, per l'ultma volta, l'aspetto, e custodire quell'immagine dentro di me per sempre. Tanto avevamo già parlato al telefono e il destino era segnato.
Morivo dentro, nonostante il grande autocontrollo che nel 2020 non avrei mai avuto, ma questa è un'altra storia, di cui non voglio far partecipe nessuno. I conti con me stesso li ho sempre pagati e in modo salato e non è più una cosa di tua competenza soffrire con me.
E' vero, me lo dicevi sempre che mi tenevo dentro le cose, pur di averti accanto. E' stato così, per davvero. E ho sbagliato.
Non posso dire di non essere stato avvertito del fatto di essere stato soltanto un "intrattenimento", e di non poter ricevere niente più di parole dolci, serate magiche, e cose intime irripetibili.
Col tempo mi sono accorto di essere la "terapia" di una coppia che, grazie a me, probabilmente ha ritrovato la felicità. E allora è il caso di tagliare i ponti, dando la parvenza che questo sentimento forte che ci lega, e forse ci legherà sempre, non esista.
Com'è giusto che sia. O forse no.
Mi è stato ripetuto di non sperare in una evoluzione del rapporto, mi è stato detto fino alla nausea, e ho sempre detto "lo so", ostentando una sicurezza non comune, pari a quella con cui guido i miei animati mezzi a motore.
Probabilmente non ho mai avuto una consapevolezza di quello che sono, nella vita, come adesso. Anche quando, tutti e due, oltrepassavamo i paletti che ci eravamo imposti.
E' evidente che non posso accusare nessuno di mancanza di chiarezza. A questo punto, come ho sempre storicamente, e forse in modo erroneo fatto, mi assumo le responsabilità di tutto, per il fatto che mi tuffo nelle cose per intero e che combatto battaglie pur sapendole perse in partenza. Le perdo a testa altissima, uscendo tra gli applausi scroscianti, ma il risultato finale comunque non cambia. Magari mi racconto anche che le "sconfitte a testa alta" sono migliori di certe vittorie, e "in corso d'opera" ci si diverte anche di più. Ne è valsa la pena di fare questo viaggio "al buio". Ne è valsa la pena, sempre e comunque.
Stavolta, però, non potevo permettermi di farmi male come tutte le altre volte.
"Questa battaglia non la vinci", diceva Sandra, al corrente di tutto. E infatti l'ho persa, sul campo, dopo un lunghissimo testa a testa, nonostante fossi conscio che al 99% sarebbe finita così, anche se dentro di noi sappiamo che il finale avrebbe potuto essere ben diverso. Ho voluto lottare comunque. Bravo, Andrea. Sempre il solito eroe de noantri che sbatte contro il muro e si fa male. Però è stato un bel viaggio, lo ripeto, e ne è valsa la pena.
E a proposito di viaggi, devo partire, tra poco, per lavoro, per una destinazione conosciuta: Livorno.
E insomma, il cielo è di quel grigio argenteo sottile in cui io, passante distratto, quasi rivedo la mia immagine riflessa, quel grigio che mi rispecchia, che rispecchia il mio umore, che mi copre e mi protegge da un cielo azzurro nascosto; troppo vasto, troppo puro, al quale ancora non posso arrivare, al quale forse, anche da pilota abituato a stare a terra, non arriverò mai.
Sono semplicemente lì, immobile, incantato, in una stupida posizione eroica e solenne con il braccio disteso davanti alla finestra ed il dito in alto a puntare non si sa quale stella invisibile a causa delle nuvole, una ben precisa stella sospesa tra tante altre. Una stella che per te, nelle cronache ufficiali della tua vita, non c'è mai stata, e da oggi ufficialmente non splende più per te, ma per me splende più forte che mai. E forse splende anche per te, che non ti sei mai raccontata la verità.
Forse per te sono stato una stella impropriamente detta “qualsiasi” in un universo qualunque, perché  ben poco importano le determinazioni, i nomi, gli epiteti, quando vedi lo splendore e l’incanto di qualcosa di straordinariamente comune, che eravamo noi.
Così  sono rimasto io, da quando abbiamo deciso di non farci più male, fermo a puntare il cielo coperto dalle nubi protettrici, cariche di pianto stellare, cariche di accumuli gassosi che come pensieri si spostano: passano, ritornano, si smontano, rinascono, simili ma sempre diverse. 
Le intravedo alzando gli occhi al tetto panoramico dell'Enterprise, mentre nel silenzio assoluto percorro la strada per andare a Livorno.
Le nuvole, come le strade, sono tutte apparentemente uguali, perché nessuno vede cosa succede dentro ad una nuvola, né cosa c'è sotto l'asfalto. Così come nessuno sarà in grado di vedere quello che succede dentro di me, rivestito di un abito scuro e di un sorriso che denota spigliatezza, ma straziato e dilaniato per averti perso in nome di quello che era "giusto" che tu facessi per tutti quelli che ti circondano, e non per te stessa, ovvero rimanere dove sei da tempo. Ovvero, hai deciso di non decidere. E da decisionista, ho preso in mano la situazione per non farmi male.
La decisione è giusta, per tutti gli altri, tranne che per me, e ne pago le conseguenze. La paura (non mia) ha vinto sull'amore. La strada facile ha vinto sulle curve.
Appunto, è stato giusto così, è il mantra da ripetere ogni secondo, ad uso e consumo della mia realtà attuale. E' stato giusto così. E' stato giusto così. Lo scriverò 100 volte sulla lavagna del mio cervello, come i bambini indisciplinati quando devono forzarsi a capire qualcosa.
Ma ti amo, e fa male. Questo amore mi tronca il respiro, e mi fa venire un magone bestiale, ora che non ci sei perché ho preso in mano la situazione ed avevo capito che comunque questo epilogo era inevitabile.
Non ho avuto dubbi fin dall'inizio, sin dai tempi delle notti insonni magiche: era ed è ancora, amore vero. Mi slancio ulteriormente, come chi non ha più niente da perdere: lo era da entrambe le parti. E forse lo è ancora.
Avevamo delineato un perimetro, che abbiamo ripetutamente invaso,  perché non c'è niente da fare: ce lo diciamo mille volte, o forse milioni. L'Amore, quello con la "A" maiuscola, quello che ti dichiaravo velatamente e che tu, per paura di quel castello di cose da fare e di persone da affrontare per dire a tutti che le tue emozioni erano lì, non mi dicevi mai di provare (salvo una sera ben precisa), non lo puoi contenere con dei paletti e con dei "recinti" autoimposti.
Ma hanno vinto le convinzioni e le paure di deludere gli altri, e forse gli investimenti fatti in passato, che oggi sono ritenuti imprescindibili.
Eppure, i titoli che perdevano li ho sempre venduti e ne ho ricomprati altri migliori. Ho forse errato nello sperare che potessi farlo anche tu.
Ha vinto l'inerzia che ne consegue, quando mi sarei aspettato un passo da mesi. Se la ragione è dei coglioni, a questo giro, da quanta ragione (inutile) ho, sono un idiota ad honorem.
Ma ti amo tantissimo, porca miseria. E tu semplicemente non mi ami abbastanza, forse.
Il sentimento esiste e resiste nonostante tutto, si insinua ovunque e fa di tutti i propositi e dei paletti un fagotto e li butta via. In effetti, tu lo vivevi senza dirmi nulla nelle sere passate sul mio divano, ma si vedeva che i tuoi occhi si vestivano di un sorriso spontaneo,  per poi rimetter loro la maschera consueta e tornare a casa. 
Questo è, o è stato, un amore forte, vero,  impossibile, che abbiamo reso, nonostante tutto e tutti, possibile. E che ora ha, giustamente, visto la bandiera a scacchi, com'è giusto che sia. O forse no.
La mia giornata è triste, come questo cielo.
Ho la consapevolezza di avere perso, ho la consapevolezza di non essere stato capace di strapparti da quel "castello" di rapporti, di paure, che ti portavi dietro, e di farti capire che non si cresce insieme solo partendo da giovani, ma anche quando si è adulti lo si fa ancora. E avrei voluto che lo facessi accanto a me, per un tratto lunghissimo di vita.
Saperti felice lontana da me è al tempo stesso una consolazione ed uno strazio. Vorrei essere io a renderti felice, vorrei poterlo fare davvero, senza pensieri, senza rancori. Eppure questa ferita che forse autoinflitta che porto in corpo si comporta come una palla al piede o come un bambino capriccioso che trattiene la mamma frettolosa in procinto di andare a fare la spesa.
Vedo solo l’apparenza, l’apparenza che ti fa stare bene via lontano da me, quando esci e fai la tua vita, che non è la mia, lontana dalla mia, nonostante la poca distanza fisica. E tutte quelle cose che avrei voluto fare cadono in un vortice di tristezza, come una morte consapevole a cui ci si abbandona quando non si hanno più speranze, quando la nave su cui contavamo di attraversare l'Oceano sta affondando davanti ai nostri occhi e tutte le scialuppe sono occupate.
Già, perché avrei voluto farne di cose con te. Avrei voluto svegliarmi accanto a te e darti il caffè nelle tazze di Starbucks che avevo preso in vari posti dove sono stato. Avrei voluto farne di viaggi con te, e svegliarsi abbracciati come sapevamo fare di nascosto. Avrei voluto portarti all'Elba, nel mio mondo estivo e invernale, per farti vedere tantissime cose che non hai ancora visto.
Avrei voluto scappare a Parigi un fine settimana così, caricando i vestiti in valigia all'ultimo minuto con i biglietti dell'aereo appena stampati.
Avrei voluto farti capire che per me eri e sei importante, e che forse la nostra vita accanto sarebbe stata bella, divertente, felice e piena di risate, ma soprattutto a colori, contrastante con il bianco e nero di tante coppie che si basano solo sull'apparenza.
Avrei voluto schierarmi con te in qualche gara di regolarità storica, e battibeccare per i settori cronometrati sbagliati.
Avrei voluto imparare da te, dal nostro ridere, confrontarsi e  viverci a pieno e non solo in questo modo.
Avrei voluto fare tante foto, con me e te sorridenti, realmente felici.
Avrei voluto farti capire che si cresce anche quando si hanno 40 anni, figuriamoci alla tua età, e avrei voluto farti crescere e crescere accanto a me.
Avrei voluto essere felice senza filtri, senza dover fingere con nessuno, e senza raccontarmi nessun'altra cavolata, in pace con me stesso e con il mondo, finalmente. E lo ero, in quelle sere incantate, quasi consapevole che avremmo potuto mettere un punto a tutte le nostre sofferenze precedenti.
E invece non ho questo privilegio. Come, forse, a questo mondo non ho né avrò mai il privilegio di essere felice.
Forse sono condannato all'abbandono e all'inquietudine di colui che, detto alla Colligiana, "non ha fermezza", ma per una volta ci avevo creduto ad andare contro i pronostici. Dentro di me sapevo che mi sbagliavo, ma ho voluto autoilludermi.
L'Enterprise affronta una cunetta a 120km/h: il muso affonda mentre trattengo il fiato e riemerge poco dopo a velocità costante. Ne esco accelerando, mentre riallineo con le mie mani esperte in troppi campi il posteriore della mia vettura "a coda lunga", come per tentare di fuggire da questi pensieri che, nonostante l'alta velocità, ci raggiungono in modo inesorabile, spiazzando lei, ma non me.
E tu lo sapevi che noi potevamo darci tanto reciprocamente, o forse addirittura tutto, per sempre.
Allora mi assuefaccio e non oppongo resistenza al ricordo di noi, che siamo stati più coppia di tante altre coppie ufficiali, prima di terminare questo silenzioso e infinito viaggio a Livorno.
Lo scrissi 11 anni fa: Le strade degli innamorati sono lunghe e strette, e non si arriva mai. Quando un amore finisce le stesse strade diventano larghe e piatte, e non si arriva mai lo stesso.
La morale sarebbe che non si arriva mai.
E invece sono arrivato. Lungomare di Livorno, terrazza Mascagni.
Ho paura di non riuscire più a credere in niente, perché in fondo è questo che sono oggi: una persona che non sa più credere, che non crede nemmeno in quello in cui vorrebbe credere, nemmeno quando quella scommessa vale tutta la sua vita. E un fiorellino si stacca dagli alberi color rosa antico del lungomare, in questa primavera arrivata in questo modo così dirompente.
Da lontano, da dentro l'Enterprise, lo guardo e sono conscio di aver sperato di non fare la sua fine, di non appassire, di non piegarmi a questo vento, di rimanere attaccato al ramo che siamo o eravamo noi, di essere sempre più forti e di poter splendere in un bel giorno di primavera sotto un cielo azzurro ed un sole caldo e che così possa essere finché il tempo sarà con noi e continuerà a scorrere, per tutte le stagioni di tutti gli anni che ci saranno. Non ho voglia nemmeno di telefonare ad un amico per dirglielo, ora che non rovescio più tante lacrime, a causa del mio autocontrollo eccessivo.
Del nostro amore bello, totalizzante, segreto, sincero, vero, puro, tenero, pulito, complice e adesso straziante non mi resta nemmeno una foto, perché sono pericolose, mi dicevi. Era uno dei famigerati paletti a cui ho ottemperato senza discutere, anche se avrei voluto farlo.
Ho il diritto di essere arrabbiato. E non con Te, ma con me stesso, per essermi ancora una volta illuso, e illuso per bene.
Ho forse il diritto di essere arrabbiato con me stesso per non aver parlato chiaro quando dovevo, perché tu andavi a "compartimenti stagni" quando c'era il titolare, sparendo per la tua solita paura di perdere tutto.
Mi resta una playlist che nella mia BMW ho chiamato "ClandestinaMente", con tutte le canzoni (parecchie, onestamente, indigeribili per me, quarantenne ex rocchettaro) che in un grigio pomeriggio di febbraio mi mandasti, e la convinzione stupida che il tuo cuore sia stato e sia ancora mio, che avresti la tentazione di correre da me, sotto la mia stazione o sotto la mia casa, a dirmi che sei mia, solo mia e che è il nostro momento. Ah, resta anche un carico di fitte allo stomaco, di lacrime ingoiate nei momenti più impensabili della giornata, di fiato trattenuto in discesa mentre guido fin quasi a soffocare. Mi resta una indelebile sequela di ricordi belli, di baci rubati e di sguardi che non tradiscono mai quello che c'è dietro. Tutti troppo belli per essere, ufficialmente, veri.
Forse in te svanirò, rimpiazzato dalle corse quotidiane, replaced by everyday, come cantano i R.E.M.
Come vorrei un tuo messaggio, qualcosa che mi faccia capire che non mi sono sbagliato. Adesso che ho accettato la sconfitta nella realtà dei fatti, vorrei la magra consolazione della "vittoria nei sentimenti".
Come vorrei avere la conferma che tutto questo vale anche per te.
Per ogni addio, e questo è avvenuto nella vita tutte le volte, viene fuori, spontaneamente, una canzone che si pianta lì in loop e me lo ricorda. E infatti, nell'autoradio si chiude la canzone "Invincible" di Pat Benatar.  A te magari non dice nulla, ma per me è un pezzo rock degli anni '80, con il classico finale in crescendo di quegli anni, che oggi appare eccessivamente corposo e ridondante come un po' tutto il rock dell'epoca. Ma ben si abbina a noi, che a tratti credevamo di essere invincibili e che invece ci siamo disciolti come neve al sole. Com'è giusto che sia. O forse no.
We can't afford to be innocent, stand up and face the enemy
It's a do or die situation, we will be invincible

Tutto facile, in teoria. L'hai fatta facile: ci si smette di vedere e ci si scorda di tutto quello che è stato il nostro amore. Non lo è, perché al cor non si comanda.
Ma ti amo, maremmasconsolatadelpolesine, e in questo casino mi ci sono infilato io. E sto male, peggio di quanto sia stato in  quaranta lunghi anni di cazzate, nonostante all'apparenza sia tutto il contrario, nonostante sia una persona dotata, adesso, dal 2021 in poi, di un autocontrollo da record.
Adesso è il momento di scendere di macchina. E non ho tempo di lamentarmi ancora, perché ho aspettative troppo alte da me stesso.
Fitta allo stomaco, respiro troncato, magone. L'autocontrollo chiede il conto, e lo pago volentieri.  E' stata una scelta difficile, ne sono certo. Gestisco questo stato d'animo guardando per un attimo il mare davanti a me. Le mie battaglie recenti le ho vinte imparando a gestire anche quello che non riuscivo a calcolare prima. Non avrebbe dovuto essere così, avrei dovuto imparare a lasciarmi andare.
Mi alzo in piedi, mi vesto del mio sorriso, e suono il campanello del Collega, con la testa altrove.
Mi rituffo nel mondo, senza di te, che fai la tua bella vita con quell'altro lì accanto da cui non riesci a staccarti. Com'è giusto che sia. O forse no.

martedì 19 aprile 2022

Hearts on fire.

 


Via Montegrappa a Poggibonsi, 50km/h. L'espressione ebete sul mio viso, per l'ennesima cazzata che sto per fare, mi fa gongolare di gioia.
E' una mattina di quelle in cui, sotto il cielo della dirompente primavera del terzo anno di pandemia, può accadere tutto.
Sto andando a compiere la quindicesima Missione Eroica della mia vita. Avevo detto che dopo l'ultima avrei smesso. L'ho detto a tutti.
Per chi non lo sapesse, la Missione Eroica è un tour  con una destinazione ben precisa che organizzo, normalmente, per recuperare qualche cazzata che ho fatto con l'esponente di turno del sesso femminile che disgraziatamente mi ha accanto.
Presuppone il calcolo militarmente strategico della mia apparizione inaspettata davanti alla arrabbiata malcapitata, dopo un viaggio di qualche ora di macchina.
Porta con sé le emozioni forti dell'incerto, una colonna sonora che mi entra in testa e non se ne va finché non arrivo a destinazione.
In questo caso, Hearts on Fire di Bryan Adams.
Ma soprattutto, la Missione Eroica genera ricordi, spesso indelebili.
Dopo il primo fallimento, che presumevo essere tale, ho sbandierato ai quattro venti "ho chiuso con codeste stronzate delle Missioni Eroiche".
Inizialmente, infatti, avevo pensato che la quattordicesima avesse avuto un esito negativo, ma non lo ebbe. Ha avuto un effetto positivo ritardato, così ritardato da causare un ritorno tardivo e non più voluto della destinataria della Missione medesima.
Quel giorno avevo studiato la parte, ma dovetti improvvisare, con l'aiuto di Virginia, di una colonna sonora che mi caricava, di una camionata di spaghetti al Batti Batti (aragostina), e di un po' di vermentino dell'Elba.
Sulla nave del ritorno dichiarai a Virginia che mai avrei fatto ulteriori bischerate. Avevo detto a me stesso che avrei fatto la persona seria, che avevo quarant'anni (come se uno a 40 anni dovesse rinunciare alle emozioni per chissà quale raggiunto limite di età). Insomma, ne avevo dette tante, ma non ne ho mantenuta una.
Tant'è che ci voleva un motivo.
Tant'è che stamani l'Enterprise vola rasoterra verso l'arrivo della quindicesima missione, la prima dopo "aver chiuso con le Missioni Eroiche". E' la seconda che compie, nella sua breve vita passata accanto a me, ma in queste circostanze sfoggia una grande simpatia, dismettendo le sue doti di Governante tedesca, e mettendo i panni della "sorniona complice appariscente" che mi porta a destinazione. 
Sembra anche lei euforica in attesa dell'esito della Missione, che è sempre incerto.
Tuttavia, stavolta non è come tutte le altre quattordici, perché il margine di incertezza è poco. Questa è una missione molto particolare, il cui obiettivo minimo è scontato, ovvero il vedere una faccia attonita. Soprattuto la Missione ha una lunghezza di 15km, a differenza delle altre che avevano una percorrenza media di tre ore.  L'obiettivo finale è grande, troppo grande e molto difficile da raggiungere.
L'obiettivo è far capire qualcosa a qualcuno, cagionare una reazione positiva. E' molto di più che recuperare la fiducia, è far togliere un po' di paletti. E non sono sicuro che l'impegno costante che ci metto funzioni.
Nonostante la breve distanza fisica, la strada è lunga lo stesso e il tempo si dilata, perché, come scrissi anni fa, Le strade degli innamorati sono lunghe e strette, e non si arriva mai.
Qui, addirittura, abbiamo concordato di vederci prima, e non ho nulla da farmi perdonare (stranamente, aggiungerei). L'effetto sorpresa per la presenza decade di colpo.
Insomma, è una Missione atipica. L'Eroismo, a questo giro, è dovuto all'azzardo del "carico bellico" che mi porto dietro.
Non è niente di che, ma vista la delicatezza dei valori in gioco, della paura in cui vive lei costantemente per le reazioni degli altri, la rosa rossa a gambo lungo che è appoggiata sul pavimento lato guida davanti al sedile posteriore dell'Enterprise, potrebbe cagionare l'esplosione di una forza pari a quella di un missile da crociera americano.
Chiaramente, una deflagrazione è proprio quello che non voglio. Vorrei solo far capire quello che realmente provo per colei che non ho accanto di diritto, ma che nei fatti è sempre più vicina. La più vicina in assoluto.
Ma ripeto, questa volta non ho da farmi perdonare niente. Ho solo da consegnare un "oggetto che presuppone un sentimento", che potenzialmente potrebbe abbattere tutti i paletti, ma ovviamente non lo farà. Ci saranno anche dei "bassi" tra noi, ma per ora ci godiamo gli "alti".
Parcheggio l'Enterprise mentre la band di Bryan Adams termina il suo assolo di chitarra. Non scendo fino a che la canzone non finisce, perché è sempre brutto fermare le cose belle a metà.
Sbarco dall'Enterprise, vestito con il mio trench blu, retaggio di un'altra epoca in cui il vento di scirocco sferzava il mio viso abbronzato, e l'ansia era padrona di tutto il mio corpo. Un'epoca non lontana nel calendario, ma fortunatamente distante nei miei nei modi di pensare e di vivere le cose difficili.
Ho la presunzione che l'espressione del viso di lei, alla vista del sottoscritto, acquisisca colore, dalla scala di grigi che assume quando non ci sono, ad un arcobaleno quando si veste del sorriso più bello del mondo. Lei non lo sa che per me il suo viso è quanto di più celestiale esista su questo Pianeta. Lei non sa tante cose, in primis che potrebbe essere molto più felice se volesse bene a se stessa.
Finché avrò la forza di stare lì, glielo spiegherò a gran voce.
Era questo il senso della Missione appena compiuta.
Mi guardo nello specchio prima di ripartire, dopo il poco tempo trascorso, ed ho una stupida espressione sin troppo compiaciuta sul volto. Sono un idiota, ma non ho mai respirato la libertà di scegliere che sento adesso, se così si può dire.
E' per questo che vorrei dare di più.
L'Enterprise riprende vita col suo solito ronzio metallico del motore biturbo, verso il tuffo nella vita quotidiana.
Vorrei solo che quella rosa facesse capire che sono disposto anche ad aspettare. E non sono il tipo che l'ha mai fatto nella vita. Mi dà noia persino aspettare la nave, figuriamoci una persona. Ma stavolta è diverso.
Perché, nonostante i ritornelli, le ripetizioni, le "Tirate indietro", i paletti, il mio non chiedere, e tutto quello che faccio e subisco, questo è un amore di quelli che, comunque vada, non scorderò e forse non scorderemo mai tutti e due.
Due persone assolutamente compatibili si trovano in un momento della vita,  e si vedono, forse, costretti a fare delle scelte. Eccomi qua, io le ho fatte, ma le ho fatte per me e per nessun altro. E aspetto spasmodicamente gli sviluppi, accontentandomi di quello che mi viene dato, che comunque è veramente tanto.
E comunque andrà, sarà uno di quegli amori che, in caso negativo, ci ricorderemo tutta la vita, e se ci incontreremo per strada, tra trent'anni, avremo la stessa voglia di darci la mano di ora, lo stesso sguardo affamato e gli stessi cuori che bruciano, nonostante le scelte, gli obblighi, le paure che non ci hanno fatto spiccare il volo. E forse, avremo lo stesso pianto nel cuore del giorno dell'addio, che oggi spero sia il più lontano possibile. Perché non so stare senza di lei, già oggi, nonostante io cammini con le mie gambe.
E' davvero un bel viaggio, genuino, vero e concreto, quello che abbiamo intrapreso. E questo mi basta. Me lo ripeto costantemente, e non è solo un'autodifesa. Ho imparato a non avere aspettative ulteriori.
Tuttavia, sono legittimato ad avere dei desideri, ogni tanto.
Desidererei che questo amore divenisse per entrambi semplicemente tutto.
Ovvero, quello che abbiamo sempre voluto dalla vita, ovvero essere liberi, tranquilli e felici, finalmente arrivati a destinazione dopo tanto penare. Forse lo desidero in generale perché non ho mai avuto la fortuna o il privilegio di essere felice, ma la candidata che vorrei accanto è una sola, e non posso averla oggi. Pace.
Non chiedo e faccio la mia vita, che probabilmente è anche un po' la sua, e non penso a tutto quello che ho scritto oggi.
Tutto questo vorrei che semplicemente lei lo capisse, e tanto mi ritroverò nel telefono un messaggio chilometrico che, razionalmente, mi ripropone il solito catalogo di Self-excuses, che conosco a memoria. O probabilmente mi ritroverò abbandonato, ancora una volta, a me stesso, ma stavolta con la consapevolezza che posso accendere il motore e dirigere la mia nave dove voglio.
Il passaggio da "#Loversintimeovcovid19" a "#Driversintimeofcovid19" è un attimo.
So a memoria che la realtà è anche un'altra. La realtà è che sto "in panchina", ma forse gioco molto meglio e molto di più del titolare.
E i giorni in cui sono costretto a stare "in panchina" (nei fatti, non nel cuore, ne sono sicuro), prima facevano male, poi, come in tutte le cose, ho dovuto imparare a conviverci e le ansie, piano piano, sono sparite. Con esse non sono svaniti i desideri, ovviamente.
Via di Spugna, Parcheggio Arnolfo Multipiano.
L'Enterprise mi ricorda che sono arrivato sotto il mio ufficio. 
Mi soffermo a guardare il bellissimo palazzo che ospita le mie stanze.
E' ora di rientrare nella mia vita, nonostante l'espressione da idiota interurbano degli anni '80.
Rientro nella stazione con una speranza in più, ogni giorno che passa, sempre cosciente che le illusioni non fanno bene, ma che viviamo per il cuore e non per il cervello.
Scuoto la testa, abbandono i pensieri per cui vale la pena di vivere per tornare all'universo di rompicoglioni che mi circonda e mi attanaglia impedendomi di fare quello che vorrei in questa vita.
Potrei fare tante cose, ma le lascio fare al tempo. E mi godo il viaggio.

giovedì 17 febbraio 2022

Vola solo chi osa farlo

 


Spianata di Campiglia, SR 68, 100km/h. E' la strada che va da casa a Volterra, dove sono diretto stamani. E' uno dei percorsi con i panorami più belli del nostro Pianeta, di cui dovremmo ritenerci fortunati. Si insinua dapprima nelle precise campagne Colligiane, poi, a forza di saliscendi e di curve spettacolari, arriva dritto nelle crete Volterrane, passa attraverso le mura della città, e ci conduce direttamente nella storia delle nostre splendide Terre, a partire dagli Etruschi, passando per il borgo di Picchena, per la Torre di Montemiccioli, e per altre amenità che magari sulle guide Lonely Planet non saranno mai inserite.
Ho sempre amato Volterra, proprio per la sua contaminazione di civiltà, antiche e moderne che lì si sono letteralmente ammassate, nella semplicità di una città di 15.000 abitanti circa abbarbicata in vetta a una collina che, oggi, è meta di turisti da tutte le parti del Mondo. Ecco, Volterra è anticonformista.
Noi, passanti distratti e abitanti pressoché locali, quasi non ci accorgiamo di quello che siamo stati e di ciò che rappresenta la storia passata, e il nostro vissuto, ma dovremmo farlo, perché tutto si ripete sempre e comunque.
La strada per arrivarci, in realtà, per chi ha  intrapreso sfide automobilistiche personali (e magari è anche un tantino mentalmente instabile, direi) è quanto di più esaltante esista. Dal 1999 la chiamo "test track" ed è lì che vado a provare le macchine che compro, e che mi danno da testare, o semplicemente, quando sono giù di morale, a sfogare i miei primordiali istinti umani al volante delle mie, sempre veloci, vetture animate.
Sì, perché loro, per me, hanno un'anima e tante storie da raccontare. L'Enterprise, tuttavia, è bene se rimane in silenzio, di recente, ma questa è un'altra storia.
Dopo i tornanti di Mugnano, da farsi rigorosamente in seconda marcia con le manuali e in terza con i cambi a 8 marce, c'è una "esse" che porta a un dosso in curva, che a sua volta immette in un rettilineo che così rettilineo proprio non è.
Questo dosso l'ho sempre chiamato "Salto del Monte", dalla località, appunto, ove si trova.
E' sempre stata una sfida con tutte le vetture che ho avuto, far staccare le ruote ed atterrare sul rettilineo successivo, vivendo la sensazione di stare in aria con oggetti che, per loro natura, devono stare a terra e starci parecchio appiccicati, pena conseguenze disastrose.
Insomma, il "salto del Monte" è un bel salto da rally di quelli di razza, che mai ha visto alcuna competizione, salvo arrancanti e sputacchianti trasferimenti della Mille Miglia, passarci sopra.
E' un salto difficile, perché se sbagli la traiettoria rischi di uscire a destra, finire nel campo sottostante e terminare inghiottito dal buio che avvolge la zona.
Sono riuscito a farlo con tutte le macchine che ho avuto sotto mano, a partire dalla Punto Cabrio nel 1999, passando per la Lancia Ypsilon versione arrabbiata, per la Mito che montava quel motorone che poi hanno mutuato le Cinquecentinedimerda Abarth (che a me, nonostante le disprezzi a parole, garbano parecchio), passando per il Duetto, fedele vettura da gara storica, con me da quasi dieci anni ormai, fino alla BalenaBlu, la mia prima BMW che andava molto bene e non si ribellava ai miei comandi.
Hanno saltato tutte, più o meno a lungo, atterrando più o meno sbilanciate, più o meno nella zanella di destra, ogni tanto manifestandomi il disappunto dello schema sospensivo con qualche tonfo sordo in atterraggio. In ogni caso tutte hanno fatto il "Salto del Monte" almeno una volta nella loro carriera.
Tutte tranne lei: l'Enterprise.
Eh già, perché il mio ultimo "Furgone della ditta" rivestito da vettura col muso incazzato (definizione calzante data da un omino sul lungomare di Marciana Marina a novembre 2020), con motore potentissimo e sospensioni MSport, non ha mai fatto il "Salto del Monte".
Forse perché lei, da buona Governante Teutonica qual è, ha fatto dell'eccessiva razionalità la sua bandiera di vita.
C'ho provato qualche volta, a dire il vero non impegnandomi più di tanto, utilizzando tutte le traiettorie possibili, da che è con me, ma niente, lei non si scompone, non si stacca, tira fuori la sua razionalità e ti porta a destinazione in modo terribilmente preciso e veloce.
Forse lei non lo dice, ma ha davvero paura, in quei decimi di secondo in cui si trova in aria, di rimanere priva del controllo per un attimo, e di non sapere dove terminerà la sua corsa. Sicuramente, è così.
Un guidatore normale non si porrebbe nemmeno questo problema.
Mi ero rassegnato, a dire il vero, però a me fa arrabbiare l'eccessiva razionalità nelle cose. E non è da me vivere rassegnato.
Oggi, quindi, voglio provarci ancora, sospinto dalla forza che mi  ha dato quanto accaduto nella mia vita recente. E allora, dopo il tornante di Mugnano, affondo il piede destro, imponendo alla mia navicella spaziale di tenere fissa la quinta marcia.
Nel preciso istante in cui la coda esce dalla curva e si riallinea sotto le mie mani esperte, inizio a pensare alla lista del "salti nel buio" che ho fatto nella vita.
Non sono tanti, ma sono stati tutti belli, in un emozionante crogiolo di sensazioni che mai avevo provato. Ed è questa il primo aspetto bello dei salti: non avere, per un attimo, il controllo e non sapere, per un attimo, come andrà a finire. Anche se, il più delle volte, ho avuto ragione, anche quando il burrone sotto di me pareva profondo e le conseguenze di una scelta maturata sembravano sin troppo difficili.
Il secondo aspetto bello dei salti è la strada che c'è dopo, che è sicuramente diversa, ai nostri occhi, da quella che hai sinora. Magari nei fatti non lo è, ma dopo il salto maturiamo una percezione diversa delle cose, e del controllo di noi stessi.
Tocco il paddle di destra, l'Enterprise mette la sesta marcia, 120 km/h. Imposto la "esse", e inizio a vedere il dosso a qualche centinaio di metri da qui.
E se ci fosse una macchina? E se sbagliassi la traiettoria?  Mi ripeto che devo stare tranquillo, perché finirebbe tutto troppo presto anche per accorgersene.
Arrivo in prossimità del dosso, con leggera correzione dello sterzo a sinistra. Inizio a pensare che l'Enterprise non si staccherà mai da terra.
E invece mi sorprende, ancora una volta, contro ogni pronostico (sì è un "Against all odds" di Phil Collins tradotto letteralmente), e prende il volo. Adesso è priva di controllo, perché le ruote non toccano terra.
In questi attimi, sono in balìa di una scelta che ho fatto prima, che è divenuta irreversibile. Quando si salta, la prima cosa che ci si domanda è: "Ho fatto bene ad abbandonare la terra che conoscevo per volare?". Viene la tentazione di guardarsi indietro, di pensare di aver fatto una delle più grosse stronzate, inutili, della vita che hai trascorso sinora.
Ma ormai, non c'è modo di fermarsi.
Mi preparo all'impatto, presumendo che sarà fortissimo.
L'Enterprise tocca terra. Lo fa in modo sorprendentemente morbido, come se atterrasse sul velluto, come se una persona che mi ama mi avesse ripreso tra le sue braccia per attutire il colpo, rischiando a sua volta di farsi male, e prosegue, dritta, come se niente fosse accaduto la sua corsa verso Volterra.
E' bello trovare qualcuno che ti accoglie tra le sue braccia quando salti. Nessuno mi ha mai raccattato in fondo ai salti della vita, costringendomi ad essere forte. Col tempo, però, le ossa rotte si sono rimarginate ed ho ripreso a camminare.
Eppure, io lo farei per chi merita, garantendo un atterraggio di velluto.
Piazzo in faccia il mio stupido sorriso soddisfatto, per l'ennesima cagata che ho combinato.
A testimonianza che, nella vita, non dovrebbero esistere né certezze né schemi fissi, e che Vola solo chi Osa farlo, anche a bordo di oggetti che, per loro natura, non ne sarebbero capaci.

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